Sono sulla strada interna che porta al camminamento superiore dell’Acquedotto Carolino, illuminata, eccezionalmente, da piccole fiaccole di citronella che, con la loro luce fioca e debole, mi permettono di vedere a poco più di un palmo dal naso.
Diversamente dal solito, il mio passo è lento, pensato.
Ai bordi della strada, tra i cespogli, le lucciole. Tante, tantissime. Si accendono a intermittenza come le lucine sugli alberi di Natale e rendono l’aria profumata e magica.
Il sole è tramontato da qualche ora. Il cielo è di un colore blu intenso e le nuvole giocano tra di loro attirando la mia attenzione. Devo assolutamente scattare una foto, penso. Luigi mi precede.
Continuo a camminare. C’è troppa gente intorno, mi infastidisce. Ma chi lo ha organizzato questo evento? Cos’è che dobbiamo fare precisamente? Riusciremo a vedere le stelle con un cielo così coperto?
I miei amici mi chiamano. Immersa in mille pensieri gli rispondo facendo un cenno con la mano e mi scuso per essere rimasta indietro.
L’Aquedotto, più comunemente chiamato, I Ponti della Valle, è bellissimo. Progettato da quel genio di Luigi Vanvitelli su commissione di Carlo di Borbone durante la metà del XVIII secolo, si impone oggi, con i suoi tre ordini illuminati, su tutta la zona circostante. E io mi innamoro di questo patrimonio dell’unesco ogni volta che lo guardo.
Intanto, tra un pensiero e l’altro, siamo arrivati su in cima. La gente è aumentata. Ma come diavolo è possibile?
Il cielo si sta aprendo, che fortuna. Un professore con un microfono poco funzionante spiega, con l’aiuto di un proiettore, i pianeti, le costellazioni, le galassie. Credo. Non lo so, non lo sto ascoltando, non si sente bene. Mi interessa solo poter attraversare quel cancelletto che vedo sempre più vicino, che mi permetterà di camminare sulla cima dell’Acquedotto. Finalmente è il nostro turno.
Una serie di telescopi sono posti lungo il percorso e i relativi addetti ai lavori spiegano, ai visitatori, ciò che è possibile vedere attraverso questi. Bisogna mettersi in fila e attendere, ma la gente è tanta. Troppa.
Vieni con me. Ti faccio vedere qual è il punto migliore per scattare una bella foto. È la voce inconfondibile di Luigi. Io lo seguo e perdiamo tutti gli altri, tra la folla.
Che panorama.
Reflex sul cavalletto, diaframma chiuso, tempo di scatto 20 secondi, o giù di li. E così ci prendo gusto e inizio a scattare a raffica, a cambiare continuamente le impostazioni, a sperimentare cose nuove.
Luigi sorride. Ti diverti con poco tu, eh? Vogliamo scrivere un po’ con la luce?! Light Painting.
Non ho la più pallida idea di cosa stia parlando, ma mi fido e iniziamo a giocare. Una, due, tre, foto. Un’altra e un’altra ancora.
Si, ti diverti decisamente con poco.
Luigi si arrampica sul muretto e tenta di scattare una foto dall’alto. Un bambino lo indica attirando l’attenzione della mamma che prontamente gli dice di non guardare perché quello è un pazzo. Ci ridiamo sù e continuiamo a scattare.
Le persone stanno, pian piano, diminuendo e noi non abbiamo alcuna intenzione di andare via. Io almeno, vorrei rimanere, ancora un altro po’.
Col naso all’insù noto che le nuvole vanno e vengono e, di tanto in tanto, mi lasciano vedere la stella polare. E poi, l’orsa maggiore, quella minore, grande e piccolo carro.
Sono felice.
Sotto i miei piedi una struttura centenaria, sulla mia testa un cielo bellissimo.
Foto di Luigi Desiato